Inuit del Canada: il diritto di avere freddo
01/nov/2008
Luciana Tufani Editrice
Leggere Donna
nuova serie n. 138
gennaio-febbraio 2009
In occasione dell’Anno Polare 2007-2008, si é svolta a Roma, nella bella sede dell’ambasciata del Canada a Villa Grazioli, una tavola rotonda dedicata agli Inuit, con la partecipazione di Gabriella Massa, archeologa inuitologa, di Davide Sapienza giornalista, di Jeela Palluk esperta di lingua inuktitut e di Jobie Weetaluktuk regista e produttore cinematografico.
L’Anno Polare é un’importante iniziativa promossa da istituzioni internazionali, finalizzato alla ricerca scientifica e a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’assoluta necessità di preservare e salvaguardare l’ambiente polare, così importante per il mantenimento dell’ecosistema del nostro pianeta.
In quest’ambito particolare attenzione é stata rivolta alle popolazioni circumartiche a cui sono dedicati diversi progetti di ricerca, poiché per prime hanno subito i recenti grandi cambiamenti climatici e ambientali, che nel giro di pochi decenni ne hanno radicalmente cambiato le abitudini di vita.
A buon diritto quindi l’incontro di Roma é stato dedicato alle tradizioni e memorie di una civiltà in cambiamento, una civiltà molto lontana da noi, non solo nello spazio, ma anche e soprattutto nella cultura e nei comportamenti.
Eppure, le brevi interessanti illustrazioni dei relatori italiani, la conversazione con gli ospiti stranieri e le bellissime immagini dei due film proiettati hanno immediatamente accorciato le distanze tra i nostri due mondi.
Jeela e Jiobie, i due relatori di etnia inuit, hanno risposto con semplicità alle molte domande dei presenti, spiegando come sia cambiata la vita loro e dei figli, ormai residenti in comode case nelle piccole città sulla costa, rispetto a quella dei nonni, cacciatori nomadi. Anche la lingua ha subito trasformazioni: molte parole indicanti attività e oggetti ora scomparsi non vengono più utilizzate, mentre altre nuove sono entrate a far parte del linguaggio comune.
Questa popolazione, la cui cultura si basava esclusivamente sulla tradizione orale, ha subito un pesante sconvolgimento nei ritmi che governavano le sue varie attività, legate alle stagioni, ora alterate dai mutamenti climatici, ed anche a causa della commistione con le nuove tecnologie introdotte.
Grazie all’atteggiamento del governo canadese che negli ultimi anni ha dimostrato nei confronti dei popoli autoctoni maggiore disponibilità dei suoi vicini d’America, é stato però possibile attivare interventi di protezione delle minoranze volti anche a salvaguardarne l’originalità; notevoli investimenti sono stati stanziati per aiutare il nord a liberare tutto il proprio potenziale, tenendo sempre presente il tema chiave della sostenibilità ambientale.
Jeela Palluk ha spiegato come la lingua Inuktituk sia ora insegnata nelle scuole e sia parlata negli uffici pubblici dell’immenso territorio del Nunavik, nel Quebec, e di come lei stessa l’abbia insegnata alla Carleton University di Ottawa, segno evidente di una nuova dignità riconosciuta alla cultura artica.
A Iqaluit, la piccola capitale degli Inuit, nel 2003 é stato fondato il Pirurvik Center, per lo studio e la conservazione della lingua e della storia locale; al lavoro dei professionisti del Pirurvik si deve anche la programmazione del sito internet della comunità.
http://www.pirurvik.ca
http://www.tusaalanga.ca
Le migliori condizioni igieniche, la scolarizzazione dei giovani, l’accesso alle cure mediche e l’apertura verso il resto del mondo hanno certamente bilanciato le perdite subite sul piano dell’identità nazionale e culturale, ma gli effetti di questi cambiamenti radicali portati dai bianchi nella vita dei popoli del Nord, sono stati inizialmente devastanti.
Lo sradicamento dal loro tradizionale sistema di vita basato sul nomadismo e la caccia aveva provocato profondi malesseri portando alla diffusione dell’alcolismo e dei suicidi. Negli ultimi anni il maggiore benessere ed il rispetto delle autonomie locali hanno in parte ovviato a queste difficoltà ed i giovani sembrano indirizzati verso una migliore integrazione.
Il principale nemico é adesso il cambiamento climatico; davanti a questa nuova frontiera i popoli subartici rivendicano il loro prioritario diritto ad avere freddo.
Certamente la vita fino a qualche decennio fa era durissima, l’età media e la natalità bassissime, ma come non commuoversi e non comprendere la nostalgia degli anziani per il loro mondo scomparso?
Il bel documentario di Jiobie Weetaluktuk “Umiaq skin boat” racconta proprio la storia di un gruppo di vecchi Inuit che nel corso di una breve estate polare intraprendono la costruzione di una tradizionale imbarcazione in pelli di foca, non per necessità pratica, ma per lasciare un segno ai più giovani di un’arte, di una manualità in via di estinzione.
Appare chiaro come nelle comunità inuit la divisione dei ruoli tra gli uomini cacciatori e pescatori e le donne, dedite ai lavori legati alla distribuzione del cibo e alla trasformazione dei prodotti della caccia, fosse marcata ed evidente.
Era un know-how che veniva trasmesso alle giovani generazioni per via gerarchica e familiare, le madri alle figlie, i padri e gli anziani ai maschi e che in una società fortemente specializzata ha portato a ottimizzare i risultati; così a fianco dei superbi infaticabili cacciatori, troviamo delle eccezionali artigiane, abilissime nel conciare e trasformare le pelli e gli altri prodotti animali in abiti e utensili, col semplice utilizzo di pochi elementari strumenti. Le lucerne in steatite, i coltelli in osso e avorio, gli occhiali e le racchette da neve, erano alcuni tra i più originali prodotti di questo artigianato femminile, assieme ovviamente alle pellicce accuratamente lavorate e agli amauti, i tradizionali costumi con un ampio cappuccio in cui poter ospitare i neonati.
La grande capacità manuale di queste donne, unita ad un originale senso estetico é ancora presente in molte delle loro discendenti che sono artiste assai note in America, dove la pittura e la scultura inuit sono apprezzate e di tendenza.
É attualmente in preparazione all’ambasciata del Canada una mostra “Women in Charge” prevista per i primi mesi del 2009, nella quale saranno presentate opere di alcune pittrici contemporanee.
In questo modo si vuole proporre anche al pubblico italiano una produzione artistica che sta vivendo un momento di grande successo sui mercati internazionali. Si tratta infatti di una pittura di genere, legata alla capacità di cercare nuove soluzioni estetiche, mediando abilmente tra il vecchio e il nuovo, restando fedeli alle origini e proponendo un ritratto dell’ambiente di appartenenza visto da un’angolazione femminile, con occhio attento ai luoghi, agli ambienti e alle abitudini da ricordare e presentare.
Leggere Donna
nuova serie n. 138
gennaio-febbraio 2009
In occasione dell’Anno Polare 2007-2008, si é svolta a Roma, nella bella sede dell’ambasciata del Canada a Villa Grazioli, una tavola rotonda dedicata agli Inuit, con la partecipazione di Gabriella Massa, archeologa inuitologa, di Davide Sapienza giornalista, di Jeela Palluk esperta di lingua inuktitut e di Jobie Weetaluktuk regista e produttore cinematografico.
L’Anno Polare é un’importante iniziativa promossa da istituzioni internazionali, finalizzato alla ricerca scientifica e a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’assoluta necessità di preservare e salvaguardare l’ambiente polare, così importante per il mantenimento dell’ecosistema del nostro pianeta.
In quest’ambito particolare attenzione é stata rivolta alle popolazioni circumartiche a cui sono dedicati diversi progetti di ricerca, poiché per prime hanno subito i recenti grandi cambiamenti climatici e ambientali, che nel giro di pochi decenni ne hanno radicalmente cambiato le abitudini di vita.
A buon diritto quindi l’incontro di Roma é stato dedicato alle tradizioni e memorie di una civiltà in cambiamento, una civiltà molto lontana da noi, non solo nello spazio, ma anche e soprattutto nella cultura e nei comportamenti.
Eppure, le brevi interessanti illustrazioni dei relatori italiani, la conversazione con gli ospiti stranieri e le bellissime immagini dei due film proiettati hanno immediatamente accorciato le distanze tra i nostri due mondi.
Jeela e Jiobie, i due relatori di etnia inuit, hanno risposto con semplicità alle molte domande dei presenti, spiegando come sia cambiata la vita loro e dei figli, ormai residenti in comode case nelle piccole città sulla costa, rispetto a quella dei nonni, cacciatori nomadi. Anche la lingua ha subito trasformazioni: molte parole indicanti attività e oggetti ora scomparsi non vengono più utilizzate, mentre altre nuove sono entrate a far parte del linguaggio comune.
Questa popolazione, la cui cultura si basava esclusivamente sulla tradizione orale, ha subito un pesante sconvolgimento nei ritmi che governavano le sue varie attività, legate alle stagioni, ora alterate dai mutamenti climatici, ed anche a causa della commistione con le nuove tecnologie introdotte.
Grazie all’atteggiamento del governo canadese che negli ultimi anni ha dimostrato nei confronti dei popoli autoctoni maggiore disponibilità dei suoi vicini d’America, é stato però possibile attivare interventi di protezione delle minoranze volti anche a salvaguardarne l’originalità; notevoli investimenti sono stati stanziati per aiutare il nord a liberare tutto il proprio potenziale, tenendo sempre presente il tema chiave della sostenibilità ambientale.
Jeela Palluk ha spiegato come la lingua Inuktituk sia ora insegnata nelle scuole e sia parlata negli uffici pubblici dell’immenso territorio del Nunavik, nel Quebec, e di come lei stessa l’abbia insegnata alla Carleton University di Ottawa, segno evidente di una nuova dignità riconosciuta alla cultura artica.
A Iqaluit, la piccola capitale degli Inuit, nel 2003 é stato fondato il Pirurvik Center, per lo studio e la conservazione della lingua e della storia locale; al lavoro dei professionisti del Pirurvik si deve anche la programmazione del sito internet della comunità.
http://www.pirurvik.ca
http://www.tusaalanga.ca
Le migliori condizioni igieniche, la scolarizzazione dei giovani, l’accesso alle cure mediche e l’apertura verso il resto del mondo hanno certamente bilanciato le perdite subite sul piano dell’identità nazionale e culturale, ma gli effetti di questi cambiamenti radicali portati dai bianchi nella vita dei popoli del Nord, sono stati inizialmente devastanti.
Lo sradicamento dal loro tradizionale sistema di vita basato sul nomadismo e la caccia aveva provocato profondi malesseri portando alla diffusione dell’alcolismo e dei suicidi. Negli ultimi anni il maggiore benessere ed il rispetto delle autonomie locali hanno in parte ovviato a queste difficoltà ed i giovani sembrano indirizzati verso una migliore integrazione.
Il principale nemico é adesso il cambiamento climatico; davanti a questa nuova frontiera i popoli subartici rivendicano il loro prioritario diritto ad avere freddo.
Certamente la vita fino a qualche decennio fa era durissima, l’età media e la natalità bassissime, ma come non commuoversi e non comprendere la nostalgia degli anziani per il loro mondo scomparso?
Il bel documentario di Jiobie Weetaluktuk “Umiaq skin boat” racconta proprio la storia di un gruppo di vecchi Inuit che nel corso di una breve estate polare intraprendono la costruzione di una tradizionale imbarcazione in pelli di foca, non per necessità pratica, ma per lasciare un segno ai più giovani di un’arte, di una manualità in via di estinzione.
Appare chiaro come nelle comunità inuit la divisione dei ruoli tra gli uomini cacciatori e pescatori e le donne, dedite ai lavori legati alla distribuzione del cibo e alla trasformazione dei prodotti della caccia, fosse marcata ed evidente.
Era un know-how che veniva trasmesso alle giovani generazioni per via gerarchica e familiare, le madri alle figlie, i padri e gli anziani ai maschi e che in una società fortemente specializzata ha portato a ottimizzare i risultati; così a fianco dei superbi infaticabili cacciatori, troviamo delle eccezionali artigiane, abilissime nel conciare e trasformare le pelli e gli altri prodotti animali in abiti e utensili, col semplice utilizzo di pochi elementari strumenti. Le lucerne in steatite, i coltelli in osso e avorio, gli occhiali e le racchette da neve, erano alcuni tra i più originali prodotti di questo artigianato femminile, assieme ovviamente alle pellicce accuratamente lavorate e agli amauti, i tradizionali costumi con un ampio cappuccio in cui poter ospitare i neonati.
La grande capacità manuale di queste donne, unita ad un originale senso estetico é ancora presente in molte delle loro discendenti che sono artiste assai note in America, dove la pittura e la scultura inuit sono apprezzate e di tendenza.
É attualmente in preparazione all’ambasciata del Canada una mostra “Women in Charge” prevista per i primi mesi del 2009, nella quale saranno presentate opere di alcune pittrici contemporanee.
In questo modo si vuole proporre anche al pubblico italiano una produzione artistica che sta vivendo un momento di grande successo sui mercati internazionali. Si tratta infatti di una pittura di genere, legata alla capacità di cercare nuove soluzioni estetiche, mediando abilmente tra il vecchio e il nuovo, restando fedeli alle origini e proponendo un ritratto dell’ambiente di appartenenza visto da un’angolazione femminile, con occhio attento ai luoghi, agli ambienti e alle abitudini da ricordare e presentare.