C. Stead - Il piccolo hotel
Recensione:
Luciana Tufani Editrice - Leggere Donna (n. 142)
settembre-ottobre 2009
Le sponde fresche e frastagliate del lago Lemano, la quiete fittizia della Svizzera, paese ricco e neutrale più di ogni altro al mondo, apparentemente lontano da disordini e dissipatezze, fanno da sfondo a questa storia di Christina Stead, che é una ironica e amara sfilata di caratteri intrecciati in un gioco di incontri e scontri nel ristretto ambiente di un albergo.
Strana scelta invero per un’australiana (difficile pensare a luoghi e atmosfere così estranei al rovente paesaggio del suo continente), ma forse voluta proprio per cercare di collocare in uno spazio rarefatto e diverso i personaggi di questa tragicomica commedia umana.
Originaria di Sidney, cresciuta nel culto della tradizione letteraria e del grande romanzo inglese, nel corso della sua lunga vita la Stead conobbe più riconoscimenti da parte della critica che successi di pubblico. “Letty Fox” é unanimemente ritenuto il suo capolavoro, ma anche i libri successivi ottennero sinceri apprezzamenti.
Suo grande ammiratore fu tra gli altri Saul Bellow, che amava particolarmente Il piccolo hotel, un romanzo scritto nel ’50 ma uscito solo 23 anni dopo, da altri considerato minore.
La voce narrante é quella di Madame Bonnard, proprietaria dell’albergo, a cui é affidato il compito di raccontarci le storie dei tanti ospiti sbandati che lo affollano.
In un albergo come questo la gente torna tutti gli anni. Abbiamo i moduli che i clienti compilano per la polizia, sappiamo tutto dei loro malanni e problemi familiari; le persone finiscono per confidarsi con noi. Ti raccontano cose che non direbbero a genitori e amici, nemmeno al proprio avvocato o al medico di famiglia.
Siamo alla fine degli anni ’40, poco tempo dopo la conclusione del conflitto mondiale, in pieno clima di guerra fredda e gli echi di questa situazione attraversano percettibilmente il libro.
Troppo fresco é ancora in tutti i protagonisti il ricordo delle angoscie subite. Basti osservare il Sindaco di B. avviato verso una ciarliera follia, che vede tedeschi dappertutto e si rifiuta di sedere con loro in sala da pranzo, o Madame Blaise che si chiede perché gli americani non usino la bomba atomica contro i russi, o la signora Trollope che é convinta che gli inglesi spifferino ai quattro venti segreti militari, mentre Miss Powell accusa gli svizzeri di intrallazzi con il nemico.
Le vicende di questo pugno di persone, reduci da tutti i luoghi del pianeta, con pesanti storie personali alle spalle, diatribe matrimoniali o finanziarie, fallimenti sentimentali o professionali, si allacciano fra loro senza che alcuno riesca mai a occupare la scena da protagonista. Questo perché l’autrice vuol dirci che non esistono storie così importanti, che ognuno ha le sue sofferenze e le sue delusioni ed é isolato nella propria stanza, da cui sente in sottofondo quel che avviene in quelle contigue, senza però riuscire a intervenire. Come sul palcoscenico del piccolo hotel, anche nella vita si é soli, pur vivendo accanto a tanti altri.
Si tratta quindi un libro raffinato, con una trama non lineare, continui richiami e fitti dialoghi, difficile soprattutto per i lettori più giovani, a cui non sarà facile cogliere i riferimenti temporali e di costume che sono fondamentali per comprenderne appieno alcune parti.
Lo stile, vivido e ricco, tradisce chiaramente l’eredità del romanzo inglese, nell’abilità nel tratteggiare con poche frasi i personaggi e nell’uso sapiente del sarcasmo e dell’ironia.
Il risultato é un romanzo intenso e personale; in qualche modo l’originaria passionalità australiana si fa strada tra le righe, pur in un testo così controllato, e filtrata attraverso la grande tradizione letteraria anglosassone dà vita ad un’opera di grande interesse.