Anna Maria Isastia - Donne in magistratura
L'Associazione Donne Magistrato Italiane – ADMI,
Debatte Editore, Livorno, 2013
Anna Maria Isastia, docente di storia contemporanea all’Università La Sapienza e presidente nazionale del Soroptimist Italia, afferma di essersi avvicinata piuttosto di recente agli studi di “genere”, dopo essersi dedicata in particolare alla storia militare e a quella della Massoneria. Eppure scorrendo i titoli delle sue pubblicazioni degli ultimi anni appare evidente un interesse intenso e genuino verso questo argomento, affrontato più volte con competenza e passione civile.
Donne e Magistratura, il suo nuovo libro, s’inserisce agevolmente in questo filone. Si tratta di un saggio complesso e articolato che esamina la crescente partecipazione delle donne alla vita politica del nostro paese da un’ottica privilegiata: quella delle donne magistrate. Una lettura impegnativa, ma di grande interesse poiché ci offre un panorama inedito sulla gestione della giustizia in Italia, giungendo alla conclusione che anche questo ambiente, considerato al vertice della scala sociale, nasconde pregiudizi e ostacoli pesanti verso il sesso femminile.
Sembra impossibile, ma anche queste donne di potere, queste signore in toga che vediamo sedute sui loro scranni autorevoli e sicure, devono spesso subire piccole e grandi mortificazioni da parte dei colleghi e dei comuni cittadini.
Ciò appare evidente già dal linguaggio, che rifiuta di indicare al femminile la loro professione, come del resto accade per molti altri nomi comuni.
Persino sul mio computer, mentre sto scrivendo, mi appare sottolineata in rosso la parola magistrate (eccola di nuovo in rosso!); è un errore quindi, ma perché?
Eppure sono ormai 50 anni che le porte della Magistratura si sono aperte alle donne, e oggi su 8678 magistrati ben 4006 sono donne, una percentuale del 46%. Presto però se continuerà l’attuale tendenza esse diventeranno la maggioranza, visto che lo sono già tra i giovani vincitori dei concorsi.
A questo importante aumento di presenze femminili agli esordi, non corrisponde però una equivalente rappresentanza ai vertici della carriera, dove le cariche più prestigiose, presidenti di Tribunale, procuratori capi della Repubblica, consiglieri di Cassazione, sono ricoperte in larga maggioranza da uomini. L’istituto della Magistratura appare quindi configurato come una piramide in cui la presenza delle donne va via via assottigliandosi salendo dal basso verso l’alto, esattamente come accade in tutte le altre attività.
Anche all’interno dell’Associazione Nazionale Magistrati la presenza femminile è molto al di sotto del 50% suggerito dalla commissione per le pari opportunità. Questo è stato uno degli elementi che hanno contribuito alla creazione di una associazione di sole donne, l’ADMI appunto, sorta nel 1990 con l’intento di sostenere la rappresentanza di genere nell’associazionismo giudiziario e di adeguare le condizioni delle donne della nostra magistratura a quelle delle loro colleghe della UE.
Il pregiudizio di genere si estende infatti a ogni aspetto della vita e del lavoro delle magistrate che, come le altre lavoratrici, devono conciliare impegni professionali e oneri di cura. Le giovani in maternità sono spesso guardare con sospetto e sufficienza e tutte poi nei casi che riguardano violenze domestiche, stupri e femminicidi, lamentano di avere a volte sentito giudizi sferzanti, parole crude, da parte di colleghi uomini.
L’impegno delle donne dell’ADMI è quindi quello di riuscire al più presto a sfondare l’invisibile soffitto di cristallo che ne blocca l’ascesa verso cariche di maggiore responsabilità, unito al desiderio di rivendicare per le donne entrate in magistratura un ruolo equivalente ma non uguale a quello maschile. Una volta raggiunta la parità formale si sente la necessità di recuperare la differenza legata al genere e al diverso modo di valutare i problemi da un’ottica femminile.
Scopo finale dell’ADMI e precipua sua ragion d’essere è quindi per usare le parole di Anna Maria Isastia: “l’esigenza di ricercare che cosa avessero fatto o potessero fare le donne magistrato, in quanto donne, per la giustizia e di tratteggiare una professionalità nuova, libera dagli schemi acquisiti, che portasse i segni visibili del loro modo di vivere, di pensare e di agire.”