Anna Foa - Portico d’Ottavia 13
23/dicembre/2013
Editore: Laterza, Bari - 2013
[Luciana Tufani Editrice - Leggere Donna (n. 162) - gen-feb-mar 2014]
Conosco la Casa di via del Portico d’Ottavia 13, ho salito spesso negli anni gli alti gradini di pietra sbrecciati che portano su, da un ampio ballatoio all’altro fino al terzo piano. Sono ballatoi aperti su un antico cortile rinascimentale, col perimetro scandito da arcate sorrette da colonne di marmo, recuperate, come si faceva a Roma nel Medioevo, nella vicina area archeologica. La Casa infatti è davvero molto vecchia; era nota come “casa dei Fabii”, dal nome di una antica famiglia romana, poi col passare dei secoli lentamente decadde, fu divisa in appartamenti che vennero dati in affitto, aggiungendo porte, corridoi, piccole corti e balconi interni, in un dedalo di scalette e disimpegni di cui ancora oggi appaiono resti evidenti.
Situata proprio sulla linea di separazione del vecchio ghetto dal resto della città, subito dopo l’emancipazione furono gli ebrei, da secoli costretti in uno spazio affollato e insufficiente, a divenirne proprietari. Nel dopoguerra cominciarono i restauri e quando negli anni ’80 il quartiere divenne di moda, gli appartamenti furono quasi tutti venduti e ristrutturati.
Il cortile riacquistò l’antico splendore, le scale furono ripulite, ma la Sovraintendenza alle Belle Arti vietò di sostituire i gradini che rimasero quelli sbrecciati di sempre, pericolosi in discesa, faticosi in salita. Sono rimasti gli stessi di quel mattino del 16 ottobre del 1943, quando le SS li risalirono con passo pesante, fermandosi davanti a ogni porta, percuotendola con i calci dei fucili per farsi aprire, tirando frettolosamente giù dal letto gli ignari abitanti della Casa, un centinaio di persone circa, tutti di origine ebraica.
Nella Casa, all’ultimo piano, ha abitato recentemente per diversi anni la storica Anna Foa; fin dall’inizio consapevole della sua storia ha però scelto di raccontarla in un libro solo quando si è trasferita altrove, riuscendo così a mettere tra sé e gli avvenimenti che narrava la distanza emotiva che un argomento così tragico richiedeva. Per anni infatti salendo quotidianamente quelle scale si era chiesta chi fossero le persone che le avevano discese qualche decennio fa, spinti avanti dai soldati tedeschi. Era un pensiero che aveva a volte sfiorato anche me, subito fugato dalla luce del cielo romano che occhieggiava sul cortile dall’alto, dal nitore dei marmi da poco ripuliti, dal fascino delle logge barocche.
È nato così questo saggio, Portico d’Ottavia 13, Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43, in cui si ripercorrono gli avvenimenti che portarono alla deportazione di oltre 2000 ebrei romani, nei nove mesi intercorsi tra l8 settembre e la liberazione di Roma.
Attraverso le vicende di quegli inquilini Anna Foa ricostruisce non solo il loro tragico destino, citandoli volutamente per nome uno per uno, dopo un certosino lavoro di ricerca, ma quello dell’intera comunità romana.
Pioveva a Roma nella notte del 16 ottobre, una pioggia leggera ma persistente, mentre i tedeschi occupavano le posizioni previste, chiudendo le vie di accesso al ghetto; erano in tutto 365 uomini e avevano in mano gli elenchi di nomi e indirizzi degli ebrei romani, preparato per loro da poliziotti italiani.
La Casa fu una delle prime abitazioni a essere svegliata; i suoi abitanti furono fatti scendere in fila fino alla strada, dove li aspettavano i camion che li avrebbero portati via. Molti, soprattutto giovani, riuscirono a fuggire attraverso i tetti, alcuni per precauzione si erano già allontanati in precedenza.
I fermati furono in tutto 35, di cui solo 4 erano uomini, gli altri donne e bambini, presenti perché per la loro incolumità fino ad allora ci si era preoccupati meno. Si pensava, che mai se ne farebbero i tedeschi di vecchi, donne, bambini, inadatti ai lavori pesanti? La paura infatti era quella di finire in un campo di lavoro, di quelli di sterminio ancora non si sapeva.
Iniziava così la razzia che avrebbe portato alla cattura di più di 1200 persone che furono tutte deportate nei lager in Germania.
Dal lavoro di Anna emerge un dato importante: contrariamente a quel che molti pensano, purtroppo le segnalazioni degli indirizzi delle famiglie ebree, le indicazioni delle singole persone, avvenivano a opera di informatori italiani. Il comando tedesco non aveva abbastanza uomini per operare da solo e neanche la necessaria conoscenza dell’ambiente locale. Circolavano quindi molte spie, qualcuna come la famigerata Celeste Di Porto addirittura all’interno della stessa comunità, e si muovevano per tutta Roma delle bande di giovani delinquenti, teppisti d’infimo ordine che ricattavano e taglieggiavano gli ebrei e non solo, guadagnandosi l’impunità con delazioni e spiate presso la polizia fascista. Celeste aveva solo 19 anni, era bella, inquieta e avida; divenne l’amante di Vincenzo Antonelli, uno dei membri della banda Mezzaroma e sfogò il suo rancore e la sua bramosia di denaro seguendolo nelle scorribande e nelle rapine in città, collaborando con lui e denunciando i propri correligionari in cambio di una parte del bottino. Cosa Celeste avesse dentro, il perché di tanto odio non è dato sapere, ma quel che colpisce in questa storia è ancora una volta la banalità del male, che si incarna un manipolo di giovani sbandati, come purtroppo ce ne sono tanti, trasformati da circostanze accidentali in carnefici.
Risalta in contrasto, e Anna opportunamente la sottolinea, la solidarietà di tanti semplici cittadini, che accolsero e nascosero i fuggitivi, dei religiosi che aprirono loro le porte di chiese e conventi.
Tra i molti motivi d’interesse del libro c’è anche quello di aver ricordato che oltre ai 1200 deportati della razzia del ghetto (solo 15 tornarono a casa) ci furono tanti altri arrestati alla spicciolata nei mesi successivi, presi per strada su delazioni di collaborazionisti o fermati durante le retate. Dopo il 30 novembre, infatti, gli ebrei furono equiparati ai nemici e per disposizione del Ministro dell’Interno di Salò ne fu ordinata la cattura in tutto il paese. Complessivamente quindi più di 2000 ebrei romani presero la via dei lager.
Nel 1947 si svolsero a Roma i processi per collaborazionismo e sequestro di beni ebraici. Suscitarono all’epoca una vasta eco ma si conclusero con condanne piuttosto lievi. Tra riconoscimenti di presunte infermità mentali, varie attenuanti e soprattutto amnistie, gli imputati se la cavarono con poco. Il desiderio di riconciliazione, nel timore di condizionare il futuro politico del paese, soverchiò le esigenze della giustizia.
Fu un calcolo sbagliato perché, come scrive l’autrice “ Noi sappiamo oggi che la riconciliazione esige giustizia, che il render giustizia e il riconoscimento dei torti ne è la condizione necessaria.”
[Luciana Tufani Editrice - Leggere Donna (n. 162) - gen-feb-mar 2014]
Conosco la Casa di via del Portico d’Ottavia 13, ho salito spesso negli anni gli alti gradini di pietra sbrecciati che portano su, da un ampio ballatoio all’altro fino al terzo piano. Sono ballatoi aperti su un antico cortile rinascimentale, col perimetro scandito da arcate sorrette da colonne di marmo, recuperate, come si faceva a Roma nel Medioevo, nella vicina area archeologica. La Casa infatti è davvero molto vecchia; era nota come “casa dei Fabii”, dal nome di una antica famiglia romana, poi col passare dei secoli lentamente decadde, fu divisa in appartamenti che vennero dati in affitto, aggiungendo porte, corridoi, piccole corti e balconi interni, in un dedalo di scalette e disimpegni di cui ancora oggi appaiono resti evidenti.
Situata proprio sulla linea di separazione del vecchio ghetto dal resto della città, subito dopo l’emancipazione furono gli ebrei, da secoli costretti in uno spazio affollato e insufficiente, a divenirne proprietari. Nel dopoguerra cominciarono i restauri e quando negli anni ’80 il quartiere divenne di moda, gli appartamenti furono quasi tutti venduti e ristrutturati.
Il cortile riacquistò l’antico splendore, le scale furono ripulite, ma la Sovraintendenza alle Belle Arti vietò di sostituire i gradini che rimasero quelli sbrecciati di sempre, pericolosi in discesa, faticosi in salita. Sono rimasti gli stessi di quel mattino del 16 ottobre del 1943, quando le SS li risalirono con passo pesante, fermandosi davanti a ogni porta, percuotendola con i calci dei fucili per farsi aprire, tirando frettolosamente giù dal letto gli ignari abitanti della Casa, un centinaio di persone circa, tutti di origine ebraica.
Nella Casa, all’ultimo piano, ha abitato recentemente per diversi anni la storica Anna Foa; fin dall’inizio consapevole della sua storia ha però scelto di raccontarla in un libro solo quando si è trasferita altrove, riuscendo così a mettere tra sé e gli avvenimenti che narrava la distanza emotiva che un argomento così tragico richiedeva. Per anni infatti salendo quotidianamente quelle scale si era chiesta chi fossero le persone che le avevano discese qualche decennio fa, spinti avanti dai soldati tedeschi. Era un pensiero che aveva a volte sfiorato anche me, subito fugato dalla luce del cielo romano che occhieggiava sul cortile dall’alto, dal nitore dei marmi da poco ripuliti, dal fascino delle logge barocche.
È nato così questo saggio, Portico d’Ottavia 13, Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43, in cui si ripercorrono gli avvenimenti che portarono alla deportazione di oltre 2000 ebrei romani, nei nove mesi intercorsi tra l8 settembre e la liberazione di Roma.
Attraverso le vicende di quegli inquilini Anna Foa ricostruisce non solo il loro tragico destino, citandoli volutamente per nome uno per uno, dopo un certosino lavoro di ricerca, ma quello dell’intera comunità romana.
Pioveva a Roma nella notte del 16 ottobre, una pioggia leggera ma persistente, mentre i tedeschi occupavano le posizioni previste, chiudendo le vie di accesso al ghetto; erano in tutto 365 uomini e avevano in mano gli elenchi di nomi e indirizzi degli ebrei romani, preparato per loro da poliziotti italiani.
La Casa fu una delle prime abitazioni a essere svegliata; i suoi abitanti furono fatti scendere in fila fino alla strada, dove li aspettavano i camion che li avrebbero portati via. Molti, soprattutto giovani, riuscirono a fuggire attraverso i tetti, alcuni per precauzione si erano già allontanati in precedenza.
I fermati furono in tutto 35, di cui solo 4 erano uomini, gli altri donne e bambini, presenti perché per la loro incolumità fino ad allora ci si era preoccupati meno. Si pensava, che mai se ne farebbero i tedeschi di vecchi, donne, bambini, inadatti ai lavori pesanti? La paura infatti era quella di finire in un campo di lavoro, di quelli di sterminio ancora non si sapeva.
Iniziava così la razzia che avrebbe portato alla cattura di più di 1200 persone che furono tutte deportate nei lager in Germania.
Dal lavoro di Anna emerge un dato importante: contrariamente a quel che molti pensano, purtroppo le segnalazioni degli indirizzi delle famiglie ebree, le indicazioni delle singole persone, avvenivano a opera di informatori italiani. Il comando tedesco non aveva abbastanza uomini per operare da solo e neanche la necessaria conoscenza dell’ambiente locale. Circolavano quindi molte spie, qualcuna come la famigerata Celeste Di Porto addirittura all’interno della stessa comunità, e si muovevano per tutta Roma delle bande di giovani delinquenti, teppisti d’infimo ordine che ricattavano e taglieggiavano gli ebrei e non solo, guadagnandosi l’impunità con delazioni e spiate presso la polizia fascista. Celeste aveva solo 19 anni, era bella, inquieta e avida; divenne l’amante di Vincenzo Antonelli, uno dei membri della banda Mezzaroma e sfogò il suo rancore e la sua bramosia di denaro seguendolo nelle scorribande e nelle rapine in città, collaborando con lui e denunciando i propri correligionari in cambio di una parte del bottino. Cosa Celeste avesse dentro, il perché di tanto odio non è dato sapere, ma quel che colpisce in questa storia è ancora una volta la banalità del male, che si incarna un manipolo di giovani sbandati, come purtroppo ce ne sono tanti, trasformati da circostanze accidentali in carnefici.
Risalta in contrasto, e Anna opportunamente la sottolinea, la solidarietà di tanti semplici cittadini, che accolsero e nascosero i fuggitivi, dei religiosi che aprirono loro le porte di chiese e conventi.
Tra i molti motivi d’interesse del libro c’è anche quello di aver ricordato che oltre ai 1200 deportati della razzia del ghetto (solo 15 tornarono a casa) ci furono tanti altri arrestati alla spicciolata nei mesi successivi, presi per strada su delazioni di collaborazionisti o fermati durante le retate. Dopo il 30 novembre, infatti, gli ebrei furono equiparati ai nemici e per disposizione del Ministro dell’Interno di Salò ne fu ordinata la cattura in tutto il paese. Complessivamente quindi più di 2000 ebrei romani presero la via dei lager.
Nel 1947 si svolsero a Roma i processi per collaborazionismo e sequestro di beni ebraici. Suscitarono all’epoca una vasta eco ma si conclusero con condanne piuttosto lievi. Tra riconoscimenti di presunte infermità mentali, varie attenuanti e soprattutto amnistie, gli imputati se la cavarono con poco. Il desiderio di riconciliazione, nel timore di condizionare il futuro politico del paese, soverchiò le esigenze della giustizia.
Fu un calcolo sbagliato perché, come scrive l’autrice “ Noi sappiamo oggi che la riconciliazione esige giustizia, che il render giustizia e il riconoscimento dei torti ne è la condizione necessaria.”