A. De Cadilhac - A corte e in guerra
a cura di
Roberta de Simone e Giuseppe Monsagrati
Editore: Viella, Roma 2007
Recensione:
Luciana Tufani Editrice - Leggere Donna (n. 136)
settembre-ottobre 2008
Dagli scaffali fecondi e polverosi dell’Archivio di Stato di Roma é emerso qualche anno fa un lungo manoscritto composto e poi forse dettato a uno scrivano, tra il 1888 ed il 1891, da una anziana nobildonna romana, la contessa Anna Galletti de Condilhac.
L’edizione, bella e accurata, si apre con l’ampia introduzione di De Simone e Monsagrati, che analizzano il testo con attenzione, sia dal punto di vista storico che lessicale.
In chiave chiaramente apologetica l’autrice affida alla carta i Ricordi della sua vita, segnata da due episodi fondamentali. Il primo fu la partecipazione giovanile ai tragici eventi della Repubblica Romana nel 1849, quando collaboró con la Principessa Belgioioso alla cura dei feriti e alla gestione dell’ospedale organizzato in cittá, attivitá che le diedero modo di conoscere personalmente Garibaldi e Anita e per cui ricevette in seguito una medaglia al valore.
L’evento che segnó definitivamente la seconda parte della sua vita fu peró la relazione che per qualche mese, tra il 1863 ed il 1864, la legó al re d’Italia, Vittorio Emanele II. Dall’incontro tra il Sovrano, assai portato alle avventure galanti, e la trentottenne matura ma ancora affascinante signora nacque improvvidamente una figlia. Anche tenendo conto dei costumi di allora, appaiono sconcertanti l’egoismo dell’uno e la leggerezza dell’altra nel cacciarsi in un simile impiccio; Anna era sposata, con due figli giá grandi, un marito generale del Regno quasi sempre lontano e godeva quindi di ampia libertá, ma non poteva certo spingersi impunemente fino a tal punto.
Caduta tra le braccia del Re, piú che per amore, per vanitá e per una sorta di infantile autocompiacimento incomprensibile in una donna della sua etá, dopo la nascita della bambina si ritrovó sola, socialmente rovinata, allontanata dal marito, pur sempre corretto, ed abbandonata dal suo regale amante che pensó bene di scomparire, anche perché legato ad altri piú antichi amori ( da poco vedovo avrebbe a breve impalmato la bella Rosina).
Cominició allora la parte piú squallida della sua vita; convinta di essere vittima di macchinazioni della “camarilla” di corte per tenerla lontana dal Re, diede inizio a una lunga sequela di lettere senza risposta, di apposatamenti falliti per avere un abboccamento col sovrano, che vilmente sempre si nega, di insistenti richieste di denaro. Qualcosa, ci é dato capire, nei primi tempi le fu certamente corrisposto per il mantenimento della piccola, ma non le fu certo sufficente per mantenere il tenore di vita a cui era abituata. Si moltiplicarono quindi le richieste di sussudi avanzate anche tramite vecchie conoscenze, politici quali il conte Visone, i ministri Lanza, Brofferio, Pianciani, in un triste elenco di cifre e di conti. Finalmente, quando ormai era anziana, la contessa ebbe l’idea di scrivere queste Memorie, forse con l’intento di venderle a un editore straniero; se ne parló anche sul Fanfulla della Domenica, ma la sua morte fece cadere le trattative.
A una seconda piú attenta lettura di questa storia appaiono peró altri aspetti meno evidenti ma non meno interessanti del carattere di Anna; si percepisce infatti nella pervicace insistenza di lei a rivendicare i propri diritti anche la volontá di opporsi all’ipocrisia del tempo e alla legge ferrea della tacita subordinazione femminile. Non a caso prima del resoconto della sua disavventura sentimentale, nel Memoriale viene dato ampio spazio alla descrizione degli avvenimenti e del contributo personalmente prestato alla difesa della Repubblica Romana, quasi volesse sottolineare l’importanza nella sua vita della sfera pubblica accanto a quella privata. Ed é ugualmente un atto politico il suo render pubblica, seppure per necessitá, una vicenda cosí personale come la delicata storia del suo adulterio. Perció forse per tanti anni questo documento é rimasto sepolto tra i fascicoli di un archivio, ingombrante esempio di malcostume patriarcale, in una societá che voleva la donna in tutto sottomessa all’autoritá maschile.