Lia Levi - La notte dell'oblio

lia_Levi
Lia Levi, La notte dell’oblio,
edizioni e/o, Milano 2012

In questo suo ultimo romanzo Lia Levi affronta esplicitamente il tema dell’oblio, della rimozione delle cause del lutto per poterlo elaborare con minor cordoglio. È sicuramente un argomento difficile, soprattutto quando lo si mette in relazione al dramma dei sopravissuti alla Shoah, ma l’autrice ha scelto di rappresentarlo in un contesto di facile lettura, nell’ambito di una storia familiare che si svolge a Roma, nell’arco di una decina di anni. L’ambiente é quello a lei ben noto del vecchio ghetto romano.
Protagoniste sono Elsa e le sue figlie, Milena e Dora. Il marito Giacomo scompare presto dalle pagine del volume, portato a morire in un campo di concentramento da una abietta delazione. Il resto della famiglia riesce invece a salvarsi e alla fine della guerra Elsa, che ha perduto tutti i propri beni, inizia una nuova vita e una nuova attività, aprendo un atelier di abiti da sposa. Il suo unico desiderio é ormai quello di dare alle figlie una vita normale, convinta col silenzio di esorcizzare il dolore per la perdita del padre e di tanti amici e parenti. Per questo tace con loro anche quando viene a conoscenza delle circostanze dell’arresto di Giacomo, ma alla lunga il silenzio non paga e la verità si farà avanti, turbando profondamente il cuore delle figlie.
Si tratta come dicevo di una storia esemplare, costruita con chiaro intento pedagogico.
Lia Levi torna quindi in parte alle sue radici di autrice per l’infanzia, ma in questo caso il pubblico a cui è destinato il libro è un pubblico di adulti e una maggiore libertà creativa non guasterebbe, come anche una cura più attenta nella descrizione dei caratteri e delle situazioni. L’amore tra Milena, la figlia bella, e il suo ricco spasimante, il loro rapido matrimonio e l’ancor più rapido disamore non coinvolgono e non si spiegano. Lo stesso vale per l’incontro con i cugini sionisti, esili figurine di sfondo; l’argomento meriterebbe un approfondimento e una partecipazione ben maggiore. Invece il ricco mondo dell’ebraismo romano, la comunità più antica e numerosa d’Italia, affollato di personaggi di ogni tipo, venditori di souvenir col banchetto al Colosseo, commercianti di tessuti, antiquari, professionisti, giornalisti, intellettuali, esce da queste pagine quasi in formato ridotto, una piazza Giudia in sedicesimo.
L’intento dell’autrice era certamente lodevole, ma questa volta mi sembra che non sia stato raggiunto. A differenza dal libro precedente, il delizioso “La sposa gentile” in cui era lasciato ampio spazio alla fantasia e all’invenzione poetica, in questo le pastoie didattiche sono troppo evidenti e troppi sono anche i temi affrontati ma non risolti. Ancora una volta, a parer mio, si evidenzia che non va bene partire da una tesi e scrivere un libro per dimostrarla; le “morali” semmai devono venir fuori spontaneamente da una storia, deve essere la libera creatività dello scrittore che reinventa la vita a generarle. Ammesso e non concesso che di tesi, di morali e dichiarazioni d’intenti in letteratura ci sia davvero bisogno.